Il mondo si sta muovendo con
sempre maggiore dinamismo. Le recenti crisi economiche, ecologiche e sociali ci
spingono a cercare nuovi modi di pensare e agire. Creatività e innovazione
possono spingere la società verso la prosperità, ma è necessario farne un uso
responsabile. Per rimanere in prima linea, l’Italia ha bisogno di essere più
creativa e innovativa. Essere creativi vuol dire saper immaginare qualcosa che
non esiste, cercare nuove soluzioni e nuove forme, disegnando attività,
prodotti e servizi. La creatività è una dimensione
fondamentale dell’attività umana. La creatività costituisce il cuore della
cultura e dell’innovazione, ma deve essere garantito a tutti di coltivare il
proprio talento creativo (e di tutelarlo legalmente). Come dimostra la storia
industriale del nostro Paese, ora più che mai il futuro dell’Italia dipende
dalla creatività e dall’immaginazione delle persone che sanno disegnare nuovi
percorsi per il futuro.
La parola “innovazione” è
principalmente legata al cambiamento attraverso la creatività. Nella maggior
parte dei casi questo legame assume accezioni positive; nell’immaginario
collettivo l’innovazione è qualcosa che può migliorare la vita nel futuro, e si
correla a concetti come scienza, conoscenza e sapere creando rottura con il
presente e il passato, “mitigando” – fosse solo sotto il profilo meramente
psicologico – le paure che caratterizzano la vita moderna. Questo processo
sociologico rende l’innovazione intrinsecamente e intimamente legata al cambio
di paradigma del progresso umano, quasi diventandone il catalizzatore.
Il quadro della tecnica e della
progettualità disegnato nei capitoli precedenti ipotizza scenari concreti per
variare il come e dove l’essere cittadino o impresa impegna (spreca) il proprio
tempo di vita. Maggiore crescita potrebbe oggi essere meglio intesa come
maggiore competizione sinergica che non maggiore competizione antagonista (tra
imprese e cittadini, tra imprese e imprese, tra cittadini e imprese, nel
promuovere e nell’ottenere il rispetto dei propri diritti).
Da molti anni, in Italia, si parla di educazione
dei giovani all’innovazione, in linea con le
politiche adottate dagli altri paesi, come Svezia, Singapore, Stati Uniti,
Finlandia, Svizzera, Corea del Sud, Islanda. Nella propensione all’innovazione,
infatti, si rilevano differenze geografiche e territoriali: in alcuni paesi o
aree urbane si cerca di orientare gli individui verso comportamenti favorevoli
alla creazione di attività di innovazione, in altri molto meno. In alcune aree
del mondo, anche dove l’ecosistema statale è poco propenso all’innovazione,
esistono radici culturali popolari di fortissimo orientamento alla creatività e
all’innovazione stessa. Spesso, queste aree sono ad altissima contaminazione e
fertilizzazione crossculturale (molti immigrati che portano le loro culture e
generano nuovi business, nuovi prodotti, nuovi servizi) (Florida, 2003).
Di qui la necessità, individuata da alcuni
studiosi e policy maker, di indirizzare gli strumenti educativi verso la
promozione dell’innovazione e della creatività proprio nei contesti meno
propensi al cambiamento e in aree apparentemente “povere” per la forte presenza
di immigrazione.
Le modalità per educare all’innovazione sono
diverse; la tendenza generale è di intervenire nei programmi scolastici e
universitari, promuovendo cultura scientifica, tecnologica e di business. Tale tendenza,
però, tralascia di considerare le caratteristiche delle diverse fasi cognitive
degli individui: è nell’età infantile, infatti, che si è più propensi
all’innovazione e alla creatività, e quindi sarebbe
opportuno intervenire con programmi ad
hoc fin dall’infanzia. Proprio in questo campo si comincia a scorgere
qualche spiraglio di sperimentazione sin dalle scuole materne e primarie di
percorsi di stimolo alla creatività e all’innovazione, di nuove metodologie, di
nuovi strumenti educativi come tablet pc, di attrezzatura scientifica e di
metodologie ad alto tasso di creatività e sensibilità al mondo reale. Purtroppo
il sistema educativo pubblico, dopo gli anni recenti di riforme al ribasso, è
lontano anni luce da questo approccio.
Inoltre, non sempre è vantaggioso promuovere
esclusivamente programmi riguardanti la conoscenza tecnico-scientifica ed
economico-gestionale; sarebbe invece auspicabile intervenire
sull’alfabetizzazione tecnologica e strumentale in termini non solo di
utilizzo, ma anche di reali vantaggi e benefici nei vari campi di applicazione
e soprattutto nel tessuto imprenditoriale. In altre parole, banalizzando il
concetto, cittadini e imprese “meritano” che uno Stato insegni loro sia a usare
uno stetoscopio sia a costruirne uno e a venderlo, ancor meglio a crearne una
variante che sia un nuovo prodotto che fornisce migliori risultati e apre un
nuovo mercato.
Una proposta educativa che rilanci la capacità di
innovare in questo Paese, dunque, dovrebbe comprendere non solo gli aspetti
contenutistici, ma anche e soprattutto modelli innovativi, sviluppando anche
fattori emozionali e valoriali dell’innovazione stessa, spaziando dalla scienza
alla cultura altrui. L’impresa imparerà a capitalizzare su conoscenze acquisite
da scienza e cultura, con le quali avrà costruito un rapporto costante e
diretto attraverso le proprie risorse umane educate con i nuovi modelli
“aperti” e grazie a un rapporto di trasferimento diretto da e verso scienza e
cultura.
Questo metodo che parte dall’educazione aiuta a bypassare
un elemento frenante sino a oggi. Il sistema economico-finanziario ha una
scarsa propensione al cambiamento. Ciò è vero a livello mondiale – fatta
eccezione per qualche “avventurosa” nazione come l’Islanda in cui il popolo si
è preso la responsabilità di decidere su questo argomento – visto che
nonostante crisi perduranti si persevera nei vizi della finanza invece di
cambiare i suoi paradigmi.
Lo spirito imprenditoriale, per sua natura intrinseca, deve creare il “nuovo”,
l’attitudine all’innovazione non è adeguatamente coltivata e non è riconosciuta
come valore poiché i piccoli imprenditori
hanno difficoltà e resistenze “culturali” ad affrontare le nuove sfide dei
mercati e non riescono ad andare oltre le loro visioni tradizionali in termini
di business e di prodotto. La realtà italiana soffre ancor più di questo
fattore laddove la politica ha falsato lo sviluppo d’impresa attraverso
clientelismi e favoritismi che hanno spento la capacità di competere delle PMI.
Voler avere vita facile in un ambiente competitivo è azione suicida, lo dicono
le leggi fondamentali dell’evoluzione naturale.
Alcune PMI italiane non sembrano possedere
strategie definite per l’innovazione perché mancano di una tradizione e di una
cultura volte all’innovazione. Una piccola impresa nata per fare body rental di
personale paramedico per una struttura ospedaliera pubblica che segue gli input
del politico di turno che promette di far fare outsourcing ha ovviamente poco
interesse e poca voglia di innovare, competere, crescere in maniera sana e
sostenibile. Fortunatamente, invece, molte aziende nascono e crescono con un
imprinting esclusivamente innovatore. Ci appare quindi sintomatica la visione a
breve termine propria delle PMI, per cui si rincorre il miraggio delle opportunità
a breve termine, perdendo di vista gli effetti negativi sul lungo e medio
periodo. La stessa percezione e accezione dell’innovazione nelle PMI è alquanto
variegata. Dall’innovazione come driver di tutta l’attività d’impresa alla mera
informatizzazione, come rivelano studi e analisi sul tasso d’innovazione delle
PMI rispetto alla diffusione al loro interno delle TIC.
(*) Estratto da L'INNOVAZIONE INTEGRATA di C. Cipollini e N.C. Rinaldi. Ed. Maggioli - Rimini -2012